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"Chiuso a Faenza lo stabilimento Omsa. La proprietaria Golden Lady Company ne aprirà un altro in Serbia. Licenziamento di 350 dipendenti, molte donne. A dare notizia dell'accordo con il ministro dell'Economia serbo è la Filctem-Cgil. Il gruppo, che detiene i marchi Omsa, Golden Lady, Sisi', Philipe Matignon, Filodoro, ha 7.000 dipendenti, 9 stabilimenti in Italia, 4 in Usa, 2 in Serbia, che presto saranno 3." Mr SPOCK, VG
Per il premier sembrava una questione di vita o di morte. Poi c'è stata la mezza marcia indietro. E tra pochi giorni il Parlamento varerà la legge definitiva. Videostoria di una piccola grande vergogna italiana
Ma che sta succedendo alla Fiat? Davvero si pensa che rievocare grottescamente un vallettismo d’antan possa rilanciare l’industria automobilistica nel nostro Paese? Davvero si pensa che con ‘politiche coloniali’ - trasferendo le produzioni in Paesi con condizioni più favorevoli per l’azienda, ma senza innovare, senza piani industriali complessivi, ‘dando la colpa’ di quello che accade a sindacati non accomodanti – si faccia fare un passo in avanti al gruppo automobilistico torinese?
Sono preoccupato per quello che sta accadendo.
Sono preoccupato per le migliaia di famiglie che passerrano un’estate di inferno anche a Torino.
Sono preoccupato per il rilancio del sistema impresa italiano.
Qualche settimana fa si parlava di Pomigliano come di un caso isolato, e proprio per la sua specificità si era tentato di convincere i lavoratori che era necessario sottostare alle condizioni umilianti decise dall’azienza. I lavoratori giustamente non li hanno creduti. Poi è venuto il caso di Melfi con le ritorsioni ai delegati sindacali. Ora il caso di Mirafiori.
Evidentemente non siamo più di fronte ad una casualità, ma a scelte precise che mettono in discussione la credibilità del piano industriale della Fiat e del suo management.
E tutto accade questo mentre siamo di fronte alla vera emergenza nazionale dell’Italia: la perdita ogni giorno di migliaia di posti di lavoro, il quotidiano passaggio di migliaia di famiglie da una vita dignitosa alla povertà.
Sono invidioso dei miei colleghi stranieri che di fronte alle crisi dei gruppi industriali nei propri Paesi vedono il loro governo parte attiva nel risolvere le vertenze. Questo non accade in Italia. Oltre al degrado morale che sta accompagnando la fase conclusiva della stagione berlusconiana, impressiona il disprezzo e il disinteresse con cui da Palazzo Chigi si seguono le vicende dell’economia italiana: il ministro fantasma dello sviluppo economico potrebbe oggi avere un ruolo chiave nell’imporre alla Fiat di aprire un tavolo con le organizzazioni sindacali dei lavoratori. Ma questo governo da due mesi questo ministro non lo ha. Il confronto invece tra azienda e parti sociali deve avvenire con urgenza.
Deve essere chiaro, alla Fiat innanzitutto, che le scelte autoritarie porteranno esclusivamente al disastro che deve essere assolutamente evitato. Non si puo’ pensare che, chiuso il secolo del ‘900, invece di entrare nel terzo millennio, si voglia ritornare al all’800: il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e di una retribuzione dignitosa sono conquiste che non possono essere cancellate, neanche attraversando il mare Adriatico…
Pochi minuti prima, invece, il ministro della Giustizia Alfano aveva espresso il proprio personale sostegno nei confronti del magistrato: “Ho grande stima – ha detto Alfano - del procuratore della Repubblica di Caltanissetta Lari, che è una persona seria, che non fa comizi per strada, che non cerca consenso politico e lavora per l’accertamento della verità. Il procuratore Lari – ha aggiunto Alfano – ha dichiarato che il lavoro che si sta svolgendo per accertare la verità sulla strage, un lavoro che noi sosteniamo fortemente, vede ovviamente esclusi Berlusconi ed i politici attuali. Si tratta di vicende del 1992. Questa affermazione del procuratore Lari per quanto ci riguarda chiarisce definitivamente la questione. Spero serva da monito -a tutti i magistrati – ha concluso il ministro - che invece di cercare la verità fanno sociologia. Se si vuol diventare sociologi possono laurearsi in sociologia e scrivere i libri, non fare i magistrati”.
C'è solo da continuare a cercare. Chi cerca la verità non lo fa a vantaggio di qualcuno, è chi depista lo fa per occultare qualcosa, proteggere qualcuno. Le cose stanno come avevamo immaginato in questi anni e anche peggio. Torno da questi tre giorni in Sicilia con la certezza che quei magistrati, se non si impedirà loro di lavorare, potranno dire al Paese la verità che fin qui è stata nascosta».
Si chiude così l’analisi dei fatti che Walter Veltroni fa all'indomani della lunghissima audizione dei magistrati siciliani in commissione Antimafia. Audizione secretata nel merito della quale - dice subito - «non entrerò per rispetto istituzionale ed etico del segreto. Posso però dire che sono stati giorni straordinari, di grande valore storico ed emotivo. Ne esco con la conferma che ciò che abbiamo detto in questi anni è assolutamente vero. È vero ciò che scrissi su questo giornale nella notte delle stragi, quasi vent’anni fa. È vero ciò che ha detto il presidente Pisanu parlando di “convergenza di interessi tra mafia, logge massoniche, pezzi di apparati deviati, settori politici”. Ripeto ciò che ho detto in questi mesi e che ora è da tutti confermato: le stragi del ‘92-’93 sono state stragi dell'Antistato, non solo stragi di mafia. C'è stato un disegno volto al condizionamento della vita politica nazionale e non era certo Totò Riina a guidarlo. Dico Antistato perché non voglio smettere di pensare che lo Stato siano Falcone, Borsellino, Caponnetto, gli uomini delle scorte, coloro che hanno speso la loro vita in difesa della legalità. Non importa quale grado gerarchico, quale posizione nella vita pubblica avesse chi ha complottato contro Falcone e Borsellino: era antistato».
Stiamo alle dichiarazioni pubbliche rese dai magistrati fuori dall'audizione: siamo davvero a un passo dalla verità?
«Sembra emergere, hanno detto alla stampa i magistrati, che l’assassinio di Borsellino è stato spiegato negli anni seguendo un depistaggio spaventoso. Una falsa verità costruita ad arte. Le dichiarazioni di Spatuzza fanno ripensare a quel che anni fa disse Brusca: per via D'Amelio ci sono innocenti in galera. Si sono evidentemente fatti passi avanti nel disvelare una gigantesca menzogna. Ma se Scarantino non è il responsabile dell'assassinio di Paolo Borsellino: perché qualcuno si è accusato di responsabilità che non aveva e per questo ha accettato condanne dure? Su mandato e per coprire chi, che cosa? Se si lasciano lavorare i magistrati, se avranno il sostegno delle istituzioni, se i mezzi di informazione non si lasceranno trascinare in pericolose operazioni di depistaggio (le fughe di notizie sono uno dei modi classici), se chi indaga sarà messo in grado di accedere alle fonti di informazione, ecco, allora davvero la verità sarà a portata di mano. Il sistema politico non deve avere paura della verità. Mi ha davvero colpito che il procuratore Lari abbia detto: il sostegno del capo dello Stato è importante. Sono importanti i segnali politici così come i gesti concreti: i colpi ai vertici della mafia, certo, ma poi sconcertano le contraddizioni. Negare la protezione a Spatuzza è messaggio pericolosissimo: se collabori non sei protetto. Una decisione assurda, mi rivolgo al governo: ci ripensi».
Spatuzza è stato oggetto di una campagna di discredito. Ci si domanda se sia credibile.
«Le parole di chi collabora con la giustizia devono trovare riscontri. Non bisogna delegittimare né credere a prescindere: bisogna verificare quello che dicono. Senza i pentiti né la mafia né il terrorismo sarebbero stati colpiti. Come ci ha detto un procuratore: le parole dei pentiti offrono una panoramica, poi ci sono altri strumenti per lo zoom. Le intercettazioni sono uno di questi. Il ddl sulle intercettazioni è pericoloso perché nega ai magistrati la possibilità di indagare: anche in materia di mafia, poiché come ciascuno sa molti reati di mafia sono emersi a partire da indagini che con la mafia in origine non avevano a che fare. E' questo il nodo della legge in discussione, questa la posta reale».
Ogni volta che si parla di stragi di stato, o di antistato, c'è chi ironizza sui complottisti e i dietrologi. È ora di uscire dalla panoramica ed entrare nel dettaglio: nomi, circostanze, prove, dicono. Dicono anche: come mai solo adesso, 18 anni dopo?
«È maturo il momento. Io non sono complottista né dietrologo. Guardo la realtà per quella che è. Piazza Fontana, Bologna, Piazza della Loggia, Ustica, la precisa composizione del commando che ha rapito Moro: se ancora non si sa con certezza come siano andate le cose non è per caso. Assassini rossi o neri, le mafie che hanno provato a distruggere il tessuto civile di questo paese non hanno mai agito da sole. Mi domando: perché si coprono verità cosi devastanti? Politicamente ci siamo già dati le risposte. I magistrati indagano quando sono in condizioni di farlo. Quando c'è chi collabora, per esempio. Oggi lo stanno facendo con serietà, con scrupolo, rischiando molto».
Un'altra domanda interessante è perché la mafia abbia smesso di fare stragi. È lo snodo del ragionamento di chi sostiene: perché lo scenario politico successivo alle stragi la garantiva.
«È un dato di fatto che le stragi finiscono in coincidenza con l’aprirsi, dopo il governo Ciampi, di una nuova fase politica, ed è altrettanto chiaro che le stragi non sono il linguaggio della mafia. La mafia uccide. Il Velabro, i Georgofili uomini come Riina non sanno neppure cosa siano. Un'altra mano, dal '69 in poi, c'è stata dappertutto. Perché la banda della Magliana compie il depistaggio del lago della Duchessa, perché rapisce Emanuela Orlandi, perché il suo capo è sepolto a Sant'Apollinare? Quando Grasso parla di "entità" non indica la Spectre ma un sistema di interessi che si coagula di volta in volta. Per me non vale solo per la mafia. È stato così per piazza Fontana, nel '78 con Moro. Qualcuno ha eseguito ma ci hanno messo le mani in molti. Nel libro di Flamigni dedicato a via Gradoli c'è una sorta di outlet del terrorismo: sul pianerottolo nell'appartamento di fronte a quello di Moretti e Balzarani il cognome sul campanello era Mokbel. La storia di questi anni è così. Che fine hanno fatto l'agenda rossa di Borsellino? Quella di Ilaria Alpi? Gli appunti di Cassarà, il file del computer di Falcone, la videocassetta di Rostagno? Ecco. Siamo forse oggi in condizione di arrivare a dirsi qualcosa che non si poteva dire prima. D'altronde la storia non è fatta della fretta bulimica dei giorni né dei mesi, è fatta di fasi. È arrivato il momento della verità ed è questo il tempo in cui chi sa ha il dovere di parlare: lo faccia. Il nostro paese ha diritto alla verità sulla sua storia».
A chi si rivolge?
«Ci sono molti testimoni viventi che hanno avuto in quegli anni responsabilità istituzionali e politiche. C'è stata per molto tempo una strategia destabilizzante. Guardiamo agli eventi di quei due anni. La mafia ha colpito prima i suoi referenti politici colpevoli di non aver ammorbidito la sentenza del maxiprocesso. Falcone, a Roma, stava arrivando al cuore del sistema finanziario e politico mafioso, è stato ucciso quando è stato lasciato solo. Poi la trattativa con l'Antistato - lo Stato non può trattare con la mafia. Non va a buon fine o Borsellino si oppone. Poi le stragi del ’93-’94, appena formato il governo Ciampi. Bisognava intervenire sull'esito della vita politica nazionale. L'alternativa è che fosse in corso un'altra trattativa. Oggi sappiamo che anche l'attentato all'Addaura non è andato come hanno voluto far credere. Agostino e Piazza, due agenti, sono stati uccisi in circostanze misteriose. Falcone diceva “menti raffinatissime”, e non penso si riferisse a Riina. Abbiamo avuto il nemico in casa, annidato dentro lo Stato. Siamo vicini, sì, a conoscere la verità ma è importante proprio per questo, proprio adesso il messaggio politico che si manda. La frase su Mangano non può essere dimenticata».
"Un eroe", per Berlusconi e Dell'Utri.
Quella della memoria è un’attività sana, che va tenuta in esercizio. Per questo è sano oggi rileggere gli atti e la relazione finale della Commissione Anselmi che nell’84 spiega i veri obiettivi della P2 di Gelli e mette in guardia, una volta per tutte, dalle associazioni segrete. La legge che porta il nome della senatrice dc è oggi tra le ipotesi di reato contestate a Carboni, Martino, Lombardi (in carcere) nonché a Verdini, Cosentino, Dell’Utri e un’altra dozzina di persone.
La Commissione Anselmi dedica un intero capitolo della relazione finale al tema dei rapporti con la magistratura. Che comincia così: «Sono presenti negli elenchi della Loggia P2 sedici magistrati in servizio e cinque membri del Csm, due togati - Pone e Buono - e tre segretari (Pastore, Croce e Palaia)». Il Piano di rinascita democratica del maestro venerabile Licio Gelli «prevedeva la necessità di stabilire un accordo morale e programmatico con la corrente di Magistratura Indipendente dell'Anm che raggruppa oltre il 40 per cento dei magistrati italiani su posizioni moderate per avere un prezioso strumento operativo all'interno del corpo anche ai fini di rapidi aggiustamenti legislativi che riconducono la giustizia a elemento di equilibrio e non di eversione». Sappiamo quali erano, allora, questi aggiustamenti: gli stessi di cui parla oggi il presidente del Consiglio che, per inciso, era titolare della tessera n° 1816 codice E.19.78 della P2. E, quindi, separazione delle carriere tra giudici e pm; pm e Csm sotto l’esecutivo eccetera.
Ma quello che colpisce di più è imbattersi, scorrendo le righe della relazione Anselmi, nell’allora giovane membro togato del Csm Giacomo Caliendo, della corrente di Mi per l'appunto, che su mandato di un altro membro togato Domenico Pone (consigliere di Cassazione iscritto alla P2) e dell’allora vice del Consiglio Ugo Zilletti faceva «pressione» sul procuratore di Milano Mauro Gresti per far riavere il passaporto a Roberto Calvi, il vice-banchiere di Dio presidente dell'Ambrosiano, nei guai giudiziari fino al collo per una sfilza di reati valutari e societari.
Diciamo subito che il passaporto a Calvi, nonostante le pressioni dei vertici del Csm, non fu restituito. Il banchiere riuscì comunque a scappare, ad arrivare a Londra per finire morto sotto il ponte dei Frati Neri. Caliendo è oggi il sottosegretario alla Giustizia amico di Lombardi, Martino e Carbone, tanto da partecipare con loro alle cene in casa Verdini, e l'uomo che in questi due anni ha mosso tutti i fili delle «riforme»: Lodo Alfano, processo breve, legittimo impedimento, intercettazioni.
Nell’81 Calvi è sotto indagine a Milano e tra le misure interdittive c’è il divieto di espatrio e il ritiro del passaporto. La P2, i cui elenchi sono stati scoperti il 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi, si attiva attraverso per dare una mano al potente banchiere caduto in disgrazia inviando più volte dal procuratore di Milano Mauro Gresti il giovane Caliendo per trovare il modo di far riavere il passaporto a Calvi. Le «pressioni», nel marasma che si scatena in Italia dopo la scoperta delle liste, diventano oggetto di un’inchiesta a Brescia in cui sono coinvolti Ugo Zilletti, numero due del Csm eletto nell’80 all’unanimità dopo l’assassinio di Bachelet e Domenico Pone, giudice di Cassazione e membro togato del Csm. Contro di loro la testimonianza-denuncia del procuratore generale di Milano Carlo Marini, anche lui avvicinato per riconsegnare il passaporto a Calvi e sollecitato da Zilletti e Caliendo. Zilletti e Caliendo non risultano iscritti alla P2. Pone viene messo sotto procedimento disciplinare dal Csm. Il giudice istruttore di Roma Ernesto Cudillo decide con sentenza-ordinanza del 17 marzo 1983 di assolvere tutti. La procura generale di Roma rinuncia a fare appello. Non solo per il passaporto, del resto.
Questo è solo uno degli episodi di interferenza P2-magistratura. La Commissione ne elenca altri. La vedova di Roberto Calvi ha raccontato che il marito pagava un fisso all'aggiunto di Milano Gino Alma per avere informazioni sulle inchieste. Un altro magistrato di Como (Ciraolo) andava a fare spesso visita a Calvi. Ernesto Pellicani, braccio destro di Carboni, racconta dei contatti con due magistrati di Milano (Carcasio e Consoli) per favorire la nomina di Consoli a procuratore generale a Milano e di riunioni conviviali a Roma alla presenza di deputati per far assolvere Calvi. Rizzoli parla di somme di danaro versate ai giudici per ottenere la riunificazione dei procedimenti a Roma. Cosa che è poi avvenuta.
Vicende del tutto sovrapponibili a quanto oggi nelle carte dell’inchiesta Insider della procura di Roma: le riunioni in casa Verdini per il lodo Alfano; le pressioni in Cassazione per togliere dai guai Casentino e quelle sul Csm per le nomine di procuratori e presidenti di Corti e Tribunali; le intercettazioni in cui Caliendo prende ordini da Lombardi; il capo degli 007 ministeriali Arcibaldo Miller che spiega come richiedere l’ispezione ministeriale (questione lista Formigoni).
La Commissione Anselmi si chiude dicendo che i contatti operativi con la magistratura «prescindevano dall'iscrizione o meno alla Loggia». A tal proposito ricorda come «la riunificazione a Roma, disposta dalla Cassazione, di tutti i procedimenti relativi alla Loggia non abbia giovato alla speditezza dell'istruttoria e al raggiungimento di un risultato concreto». E si sofferma sulla requisitoria del procuratore Gallucci che il 29 maggio 1982 «rappresentò la P2 come un fenomeno associativo di scarsa pericolosità». Più meno come «i quattro sfigati pensionati» di cui parla oggi il premier Berlusconi. Che, sempre dalle carte anche se questa volta del processo Dell’Utri, risulta fin dal 1980 in affari in Sardegna con Flavio Carboni e Romano Comincioli, il suo compagno di classe e oggi deputato.
Peggiorano le condizioni delle famiglie povere del Sud e cresce la povertà assoluta (che misura i più poveri tra i poveri) di quelle operaie. In un quadro della povertà sostanzialmente stabile nel 2009, anche perché l’effetto della crisi è stato mitigato da due ammortizzatori (Cig e famiglia), la situazione si aggrava comunque tra gli operai e nel Mezzogiorno. Lo rileva l’Istat nel rapporto annuale sulla povertà in Italia.
AUTISTI - Ma il costo principale non sono le auto in sé, ma gli autisti. Il costo del personale incide infatti per il 75%. Si spende infatti un miliardo di euro per consumi, manutenzioni e assicurazioni. Tre miliardi di euro costa invece il personale addetto (40 mila autisti in senso proprio, più 20 mila addetti amministrativi e generici). «Sessantamila autisti su 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici sono troppi», ha affermato il ministro. «In molti casi si tratta di personale assunto con altre mansioni che io vorrei si dedicasse a produrre beni e servizi. Anche perché un'auto a noleggio costerebbe 95 mila euro, con un risparmio di 55 mila euro. La strada da seguire è questa».